Le banche nelle economie avanzate

Nel corso degli ultimi vent’anni l’industria bancaria è stata oggetto di un processo di trasformazione, tuttora in corso, determinato dalla liberalizzazione dei mercati, dall’introduzione di nuovi prodotti e strumenti finanziari, dalla penetrazione della tecnologia dell’informazione. A partire dagli anni Ottanta del Novecento negli Stati Uniti, e un decennio più tardi in Europa, il sistema bancario ha visto la riduzione del numero delle banche e l’aumento delle loro dimensioni, grazie a una serie di fusioni e concentrazioni finalizzate alla creazione di gruppi bancari in grado di operare a livello internazionale. Nell’Europa continentale il processo – più lento perché una parte rilevante delle banche è ancora sotto il controllo pubblico – ha subito un’accentuata accelerazione in vista dell’Unione monetaria europea.

I confronti internazionali sono notoriamente fonte potenziale di equivoci; la cautela è a maggior ragione richiesta quando si consideri un settore così pesantemente condizionato da normative nazionali come quello bancario. Una tendenza che però emerge nitidamente, anche da una disamina non troppo approfondita, è la convergenza nelle modalità operative dei maggiori sistemi bancari, man mano che entrano in più diretta concorrenza, sintetizzabile in alcune caratteristiche comuni:

a) rimozione di vincoli sulle scelte di gestione, con un ampliamento dell’operatività sia geografica sia per tipologia di prodotti nella tradizionale attività di concessione di prestiti e di raccolta di depositi;

b) crescente importanza della gestione della ricchezza finanziaria dei risparmiatori;

c) preminenza, nell’indirizzare le scelte strategiche dell’impresa bancaria, dell’obiettivo della massimizzazione del rendimento per gli azionisti anche nell’Europa continentale, dove si è avviata una progressiva riduzione del controllo pubblico sul settore.

Queste tendenze emergeranno esaminando prima, con un maggior grado di approfondimento storico, il caso italiano e successivamente alcuni aspetti dei sistemi bancari dei maggiori paesi europei e degli Stati Uniti.

Limitarsi al caso italiano sarebbe poco giustificabile, data la progressiva realizzazione di un mercato unico europeo, fenomeno ulteriormente sospinto dall’Unione monetaria europea (Ume d’ora in poi); a sua volta, l’industria bancaria americana è il maggior concorrente di quella europea nel nuovo ambiente costituito dall’Ume. La costituzione di un unico sistema finanziario su scala continentale pone infatti in una posizione iniziale di vantaggio le banche americane, già assuefatte a convivere con il mercato finanziario più evoluto e a fornire servizi alle imprese multinazionali, rispetto a quelle europee, meno abituate a operare fuori dai confini nazionali.

L’industria bancaria in Italia

All’inizio degli anni ’90 i tratti distintivi dell’industria bancaria in Italia, come risultato delle norme emanate nel 1936, anche se successivamente integrate da altre disposizioni, e note come “legge bancaria”, erano così sintetizzabili.

Le “aziende di credito” – banche e casse di risparmio – e gli “istituti di credito speciale” (Ics) erano distinti a seconda che depositi a risparmio vincolati e certificati di deposito avessero una scadenza massima fino a 18 mesi per le prime, oltre per i secondi. La durata dei prestiti che ciascun istituto poteva erogare era in relazione, sia pure non in forma rigida, con la scadenza massima della raccolta. Tra gli Ics, all’Imi, sorto su iniziativa di una serie di operatori pubblici nei primi anni ’30, si erano affiancati nell’immediato secondo dopoguerra diversi organismi, preminente tra tutti Mediobanca.

Dopo la crisi della “banca mista” negli anni ’20 e inizio anni ’30, alle banche era di fatto vietato il coinvolgimento nella gestione delle imprese non finanziarie attraverso l’acquisizione di partecipazioni nel capitale e viceversa. La supervisione del settore bancario era attribuita a un apparato pubblico, incentrato operativamente sulla Banca d’Italia, dotato di poteri molto ampi e con una forte discrezionalità nel loro esercizio. L’organo di vigilanza, che dal 1947 era formalmente la stessa Banca d’Italia, agendo come braccio operativo del Comitato interministeriale del credito e del risparmio (Cicr) presieduto dal ministro del Tesoro, poteva decidere sull’ingresso nel mercato delle aziende di credito e regolare la loro articolazione territoriale di sportelli, e aveva la possibilità di far sentire la propria voce anche negli aspetti più sostanziali della gestione.

Il grado di concorrenza presente nell’industria bancaria era limitato da significative barriere all’entrata, perché la Banca d’Italia non autorizzava la costituzione di nuove aziende di credito, fatte salve le “casse rurali e artigiane”, in tal modo contenendo in particolare la presenza di banche estere. Un ulteriore e potente fattore limitativo della concorrenza era il controllo pubblico (Stato, Iri, enti locali, fondazioni) su circa i quattro quinti dell’intero settore. Infine, le caratteristiche del sistema finanziario ponevano le banche in una posizione di privilegio, per l’assenza di forme di investimento dei risparmi diverse dai depositi bancari e di canali di finanziamento per le imprese diversi dai prestiti.

In quest’ambiente protetto non è sorprendente che mancassero gli stimoli ad adottare scelte di gestione contrassegnate da autonomia imprenditoriale, venendo invece a essere favoriti comportamenti gregari di adesione alle indicazioni della banca centrale. Solo a partire dall’inizio degli anni ’80 il monopolio nella raccolta del risparmio delle famiglie, dati l’assenza di strumenti finanziari alternativi ai depositi e i vincoli agli investimenti all’estero, veniva a essere indebolito per la concorrenza esercitata dai titoli di Stato (Bot e Cct).

Le aziende di credito erano articolate in sei categorie, a seconda della struttura proprietaria. Le prime due categorie includevano le banche più grandi. Le tre “banche d’interesse nazionale”, con filiali in almeno trenta province – Banca commerciale italiana, Credito italiano e Banca di Roma – erano costituite in società per azioni e controllate dall’Iri, e quindi dallo Stato; i tre istituti avevano promosso nel 1946 la nascita di Mediobanca. I sei “istituti di credito di diritto pubblico”, – Banca nazionale del lavoro, Istituto bancario San Paolo di Torino, Monte dei Paschi di Siena, Banco di Napoli, Banco di Sicilia e Banco di Sardegna – concedevano anche credito a medio termine (con scadenza compresa tra 18 mesi e 5 anni) e a lungo termine (oltre i 5 anni) mediante apposite sezioni autonome. Le “banche popolari cooperative” – 103 nel 1992, tra le quali le maggiori erano quelle di Novara e di Milano – erano società cooperative a responsabilità limitata, che potevano avere scopo di profitto, avevano azioni circolabili e riserve distribuibili ai soci in fase di liquidazione; per diventarne soci, potendo godere di un solo voto in assemblea, era prevista una clausola di gradimento da parte del consiglio di amministrazione. Concedevano il credito a medio e a lungo termine mediante Centrobanca. La categoria delle “casse di risparmio” e dei “monti di credito su pegno” (75 nel 1990, tra cui la maggiore era la Cariplo) era costituita da fondazioni e corporazioni, cioè enti con personalità giuridica di diritto pubblico. Le casse di risparmio concedevano il credito a medio e a lungo termine attraverso le sezioni speciali da esse stesse create o i vari Ics di cui erano azioniste. Le “casse rurali e artigiane” (circa 700) erano una categoria di piccole aziende, presenti in piccoli comuni, con un forte radicamento in Lombardia e nelle regioni del Nordest, di cui erano soci, come suggerisce la denominazione, in prevalenza artigiani e agricoltori. Le “banche di credito ordinario” comprendevano le aziende (nel 1992 erano 106, più le 40 filiali di banche estere operanti in Italia) non appartenenti alle altre categorie; giuridicamente private, il loro pacchetto azionario era tuttavia spesso di proprietà pubblica. La loro dimensione era molto eterogenea (tra le maggiori c’erano la Banca nazionale dell’agricoltura, la Banca toscana, il Banco ambrosiano e, successivamente alla nota crisi dei primi anni ’80, il Nuovo banco ambrosiano, il Banco di Santo Spirito). Erogavano il credito a medio e a lungo termine mediante la rete dei Mediocrediti regionali.

Nel complesso, la quota del mercato bancario facente capo ad aziende di credito sotto il controllo di soggetti pubblici toccava valori, senza confronti in Europa, prossimi ai due terzi; questa quota si accresceva tenendo conto del quasi completo controllo degli istituti di credito speciale da parte di soggetti riconducibili alla mano pubblica. Non è sorprendente quindi che il management bancario privilegiasse obiettivi di massimizzazione della crescita dimensionale dell’azienda, per i benefici che ne derivavano in termini di possibilità di carriera e di ampliamento dell’influenza di potere per sé e per i referenti politici, piuttosto che obiettivi di redditività.

In caso di crisi dell’impresa bancaria, in relazione alla natura di ente pubblico di una parte considerevole del settore, ma anche all’obiettivo di preservare la fiducia dei depositanti, non si applicava, come per le imprese private, l’istituto del fallimento, bensì quelli, promossi su iniziativa dalla Banca d’Italia, dell’amministrazione straordinaria e, nel caso di crisi irreversibile, della liquidazione coatta amministrativa. Il ricorso a quest’ultimo strumento raramente si traduceva tuttavia nella liquidazione della banca insolvente; di fatto, specie nel caso di grandi istituti, la banca centrale promuoveva iniziative perché altre banche sane assorbissero quella insolvente. Gli incentivi utilizzati a questo fine erano un trattamento meno restrittivo in tema di autorizzazione all’apertura di nuovi sportelli e l’erogazione di finanziamenti a tassi di favore. Tra questi, la norma, introdotta nel 1974 per il caso del dissesto della Banca privata italiana di Sindona, prevedeva la concessione da parte della Banca d’Italia di prestiti biennali al tasso di favore dell’1% alle aziende di credito che, accollandosi i debiti verso i depositanti di banche in liquidazione coatta, avessero dovuto per questo fronteggiare delle perdite. Queste erano coperte appunto dando la possibilità di lucrare la differenza tra i rendimenti dei titoli di Stato in cui investire i finanziamenti agevolati e il costo di questi ultimi. Solo nel 1987 è stato attivato il Fondo interbancario di tutela dei depositi.

Le modalità di conduzione della politica monetaria, nel periodo compreso tra il 1973 e il 1983, contrassegnato da elevata inflazione e da ripetute crisi del tasso di cambio della lira, introdussero ulteriori elementi di dirigismo nell’attività bancaria. I due principali aspetti furono il vincolo di portafoglio e i massimali sul credito. In base al primo, le aziende di credito erano tenute a destinare quote dei loro nuovi depositi all’acquisto di obbligazioni (dalle caratteristiche anch’esse predeterminate) emesse dagli Ics, con l’obiettivo di consentire a questi ultimi di finanziare investimenti in settori produttivi ritenuti prioritari per la politica economica. Il vincolo di portafoglio serviva a sostituire le banche ai risparmiatori, che in una fase di elevata inflazione tendevano a privilegiare gli investimenti in attività finanziarie con tassi d’interesse rivedibili a breve termine (depositi e poi Bot), piuttosto che in obbligazioni a medio-lungo termine. Queste erano infatti penalizzate per le perdite in termine di potere d’acquisto sia in conto interessi, perché le cedole erano fisse, sia in conto capitale, perché il rimborso del titolo avveniva a valori nominali, che non tenevano conto dell’aumento nel frattempo verificatosi nei prezzi. I massimali sul credito ponevano dei limiti, con alcune eccezioni di volta in volta individuate, alla crescita dei prestiti, con l’obiettivo di controllare l’andamento dell’attività economica per contenere le importazioni e limitare pressioni al rialzo dei prezzi.

Come è facilmente intuibile, l’estensione di misure amministrative uguali a tutto il sistema bancario, composto da aziende con caratteristiche molto differenziate, contribuì di fatto a svilirne ulteriormente le capacità imprenditoriali. In particolare, la crescita delle banche più dinamiche fu frenata a favore di quelle meno competitive, che poterono godere del beneficio di mantenere o addirittura aumentare la loro quota sul mercato dei prestiti. Infine, un ulteriore fattore di distorsione nella condotta operativa delle banche è stato il regime di riserva obbligatoria, ovvero l’obbligo per le banche di mantenere una quota dei loro depositi presso la Banca d’Italia, una sorta di imposta molto onerosa in un confronto internazionale, data l’elevatezza della quota e la sua remunerazione, a un tasso d’interesse fisso, molto inferiore ai rendimenti di mercato.

Solo a partire dalla metà degli anni ’80, una serie di fattori ha contribuito a mettere in moto un processo che ha investito l’intero sistema bancario e sollecitato un ripensamento dell’assetto normativo ormai cinquantennale: l’abolizione del vincolo di portafoglio e dei massimali sul credito e il conseguente rimescolamento delle quote di mercato, per lo scatenarsi di un’accesa concorrenza nell’offerta di prestiti rivolti soprattutto alle piccole e alle medie imprese; la concorrenza ai depositi svolta dai titoli del debito pubblico e dai fondi comuni d’investimento (introdotti nel 1984); la liberalizzazione nella politica di apertura degli sportelli; la scadenza del gennaio 1993 per il mercato unico europeo, con l’annessa possibilità per banche estere di poter operare in Italia come nei paesi d’origine; l’attenuazione del regime di riserva obbligatoria. La stessa forma organizzativa dell’impresa bancaria è stata messa in discussione, in relazione alla partecipazione nel capitale di società di leasing, di factoring, di gestione dei fondi comuni, di commissionarie, di finanziarie di partecipazione e di gestione e negoziazione di valori mobiliari. Inizialmente la soluzione preferita dalla Banca d’Italia è stata quella di mantenere la distinzione tra attività bancaria e non, evitando che si creassero commistioni di ruoli con possibili conflitti d’interesse. La seconda direttiva bancaria approvata dal Consiglio dei ministri dell’Unione europea nel dicembre 1990 ed entrata in vigore dall’inizio del 1993 ha però spazzato il campo a favore della libertà di scelta circa le modalità organizzative, adottando come schema di riferimento quello, meno restrittivo, della “banca universale”: tutti i servizi possono essere forniti all’interno della stessa unità operativa, che può finanziare le imprese oltre che con prestiti anche tramite la sottoscrizione di azioni.

Assieme alla direttiva comunitaria che liberalizzava i movimenti di capitale con l’estero a partire dal 1990, la seconda direttiva bancaria è il provvedimento chiave che ha posto le basi per rendere unico il mercato bancario europeo. Essa ha fornito tutti gli elementi per realizzare la più ampia concorrenza tra le industrie bancarie (e i rispettivi sistemi nazionali di regolamentazione) dei paesi dell’Unione perché, oltre alla scelta del modello organizzativo della banca universale, è incentrata sui principi del passaporto unico (che consente di esercitare l’attività bancaria in tutti i paesi dell’Unione), del mutuo riconoscimento (ogni banca può svolgere ovunque nell’Unione le attività, comprese in una lista, che è autorizzata a svolgere nel paese di origine), dell’esercizio della regolamentazione prudenziale da parte del paese di origine.

Il decreto della fine del 1992, che ha recepito nella legislazione italiana la seconda direttiva, la legge Amato-Carli del 1990 e il “Testo unico” delle norme in materia creditizia e finanziaria del settembre 1993 sono i provvedimenti chiave che innovano in maniera radicale il modo di funzionamento dell’industria bancaria italiana.

La legge Amato-Carli introduce incentivi fiscali per la trasformazione delle banche in società per azioni e regolamenta il gruppo bancario, rendendo possibili le operazioni di ristrutturazione societaria degli enti creditizi (trasformazioni, fusioni e conferimenti). Molto importante è poi la scissione degli enti bancari costituiti in forma di fondazione o di corporazione in due parti: la fondazione, che assume lo statuto di ente pubblico ed è titolare della proprietà, e la banca, costituita come società per azioni. Sono così poste le premesse per la dismissione delle partecipazioni bancarie da parte delle fondazioni e la rinuncia delle stesse a ingerirsi nella gestione delle aziende di credito, uno snodo cruciale per avviare il processo di privatizzazione delle casse di risparmio e degli istituti di diritto pubblico e rendere possibili operazioni di fusioni e acquisizioni.

Il Testo unico adotta un’interpretazione restrittiva dei margini previsti dalla seconda direttiva bancaria circa le partecipazioni azionarie delle banche in imprese non finanziarie e viceversa, anche se di fatto allenta la separatezza tra banca e impresa che aveva contraddistinto l’esperienza italiana dagli anni ‘30. I soggetti non finanziari non possono essere autorizzati ad acquisire quote del capitale della banca superiori al 15% o in ogni caso tali da conferire loro il controllo. Quanto ai soggetti finanziari, tra cui anche altre banche, la Banca d’Italia deve autorizzare preventivamente l’acquisizione di partecipazioni superiori al 5% o quando in ogni caso comporti il controllo. La disciplina è molto diversa invece a seconda che la banca investa in azioni di imprese finanziarie o non. Nel primo caso, in cui ricadono le imprese di assicurazione, non vi sono vincoli particolari, salvo la preventiva autorizzazione della Banca d’Italia quando la partecipazione superi determinate soglie o implichi il controllo. Nel secondo caso si prevede che le singole partecipazioni in imprese quotate non possano superare il 3% e, nel complesso, il 15% del patrimonio della banca; queste percentuali sono dimezzate nel caso di imprese non quotate; infine, la partecipazione bancaria non deve superare il 15% del capitale della singola impresa. Alcune deroghe sono previste solo in casi eccezionali per banche specializzate nella raccolta a medio e lungo termine.

Resta confermata l’esclusione delle banche in crisi dalle procedure valide per tutte le altre imprese private. Anche sotto il profilo delle norme a tutela della concorrenza il settore bancario gode di un regime particolare, rimanendo sottoposto alla Banca d’Italia piuttosto che all’Autorità garante per la concorrenza.

Con l’entrata in vigore della seconda direttiva e l’emanazione del Testo unico, le banche, che si erano già trovate abilitate dal 1991 all’esercizio di quasi tutte le attività di intermediazione mobiliare, possono essere attive sull’intero spettro delle operazioni finanziarie, con l’eccezione di quelle assicurative e di quelle riservate alle società di gestione dei fondi comuni di investimento e alle società di investimento a capitale variabile (Sicav). Perde buona parte del suo significato anche la distinzione delle banche fondata sulla loro natura giuridica e viene quindi eliminata la maggior parte degli ostacoli che si frappongono alle operazioni di fusione tra aziende appartenenti a categorie diverse, che ora sono ridotte sostanzialmente alle tre di seguito illustrate, cui devono essere aggiunte le filiali di istituti esteri.

La gran parte del sistema (con una quota pari a circa l’84% dei prestiti concessi a residenti a fine 1998) ricade tra le 237 banche costituite come società per azioni (Spa), che includono quelle precedentemente classificate come istituti di credito di diritto pubblico, banche d’interesse nazionale, casse di risparmio, banche popolari che hanno assunto la forma di Spa e tutte le banche con raccolta a medio e lungo termine, ovvero gli ex Ics e le sezioni di credito speciale. Le altre due categorie sono quelle delle 56 banche popolari non Spa (13%) e delle 563 banche di credito cooperativo (0,5%), in cui confluiscono le ex casse rurali e artigiane; le 84 filiali di banche estere incidono per l’1,5%.

Focalizzare l’attenzione sulle singole banche è tuttavia fuorviante, perché la loro autonomia decisionale può essere limitata se esse sono inserite in un gruppo, una modalità organizzativa assai diffusa in Italia in tutti i campi della produzione, che unisce i vantaggi della flessibilità a livello operativo con quelli della centralizzazione dei servizi strategici (finanza, marketing, sistemi informatici, logistica, relazioni esterne). Il “gruppo bancario” viene definito dalla normativa italiana come l’insieme formato dalla banca (o dalla società capogruppo) e dalle aziende bancarie, finanziarie e strumentali (società immobiliari, di gestione di servizi informatici ecc.), da questa controllate, che operano in una o più della lista delle attività previste dalla seconda direttiva per il mutuo riconoscimento. La quota di attività bancarie controllate dagli 85 gruppi iscritti nell’albo tenuto presso la Banca d’Italia ha raggiunto nel 1998 l’87%, di cui oltre la metà è concentrata nei primi cinque; ad essi fanno capo 200 banche in Italia e 59 filiali all’estero, 421 società finanziarie e 158 società strumentali; ai 23 gruppi maggiori, cioè a quelli composti da più di dieci società, fanno capo 114 banche in Italia e 55 filiali all’estero, 348 società finanziarie e 98 società strumentali. Resta fuori dal gruppo l’attività assicurativa, in cui però la presenza come canale distributivo è massiccia: da una recente indagine è emerso che circa i tre quarti dei gruppi bancari commercializzano prodotti assicurativi del ramo vita; almeno la metà opera in modo significativo negli altri rami assicurativi.

La privatizzazione del comparto bancario, le cui basi aveva posto la legge Amato-Carli, è iniziata con l’offerta di vendita al pubblico, da parte dell’Iri, delle azioni della Banca commerciale italiana e del Credito italiano; successivamente il Tesoro ha privatizzato l’Imi e la Banca nazionale del lavoro e nel 1999 è stata avviata la procedura per le rimanenti partecipazioni nel Mediocredito centrale-Banco di Sicilia e nel Credito industriale sardo. Le modalità attraverso cui è avvenuta la privatizzazione delle maggiori banche controllate dalle fondazioni hanno preservato per queste ultime, anche dopo aver ceduto il controllo assoluto del capitale, un ruolo cruciale nel nucleo degli azionisti di riferimento. Sei degli otto maggiori gruppi bancari italiani (Unicredito italiano, San Paolo Imi, Banca di Roma, Bnl, Mediocredito centrale-Banco di Sicilia, Banco di Napoli, Banca Intesa e Banca commerciale italiana, quest’ultimo prossimo a essere inglobato nel penultimo già nel corso del 1999) hanno infatti tra i propri soci di riferimento delle fondazioni, per di più attraverso una fitta rete di partecipazioni incrociate, che indebolisce i rapporti di concorrenza reciproci e priva di riferimenti esterni di controllo i manager. Paradossalmente, in contrasto con le cautele ancora codificate nel Testo unico circa la proprietà di banche da parte di soggetti non bancari, finanziarie e società di assicurazione controllate da una stessa famiglia fanno parte del nucleo stabile di azionisti di due grandi gruppi bancari. La fondazione manterrà la maggioranza assoluta del capitale del nono maggior gruppo, quello del Monte dei Paschi di Siena, anche dopo la sua quotazione in borsa nel giugno 1999. Un secondo aspetto della privatizzazione che va segnalato è che in ognuno dei primi cinque gruppi i soci esteri controllavano alla fine del 1998 più del 10% del capitale, una situazione del tutto asimmetrica rispetto alla contenuta presenza come azionisti degli intermediari italiani all’estero.

È una constatazione di fatto che nel sistema bancario italiano sia in corso un processo significativo di concentrazione; i passi da compiere verso un mercato bancario articolato su gruppi privati in concorrenza tra loro, in cui l’operatore pubblico agisca solo come regolatore, sono tuttavia ancora molti.

Manifestazioni di queste difficoltà sono alcune debolezze strutturali che compromettono la competitività delle banche italiane – ancora numerose, piccole, poco redditizie, con un’esigua presenza all’estero e con una scarsa offerta di servizi prodotti innovativi – sul mercato europeo. Anche dopo i processi di fusione e acquisizione sinora realizzati nessun gruppo bancario raggiunge dimensioni e offre la gamma di attività richieste a una banca universale di livello europeo. Dagli inizi degli anni ’90, il costo del lavoro in rapporto al margine di intermediazione (interessi attivi meno interessi passivi più commissioni) si è ridotto in Francia e in Germania, è rimasto stabile in Spagna ma si è accresciuto in Italia, raggiungendo nel 1997 il 43%, cinque punti percentuali in più della media degli altri tre paesi. Nell’offerta di prodotti finanziari innovativi (contratti derivati, cartolarizzazione dei prestiti), nei servizi di finanza d’impresa (investment banking, ovvero consulenza e assistenza in operazioni di acquisizioni, fusioni o di emissione di titoli azionari e obbligazionari ecc.), ma anche in quella di prodotti tradizionali, come i mutui, è crescente la presenza di operatori esteri.

Un fattore strutturale di debolezza specifico è poi costituito dall’ennesima manifestazione del dualismo economico italiano. Il sistema bancario meridionale ha, nel corso degli anni ’90, mostrato significativi fattori di fragilità di fronte al nuovo contesto più competitivo e trovandosi ad operare in un’area del paese che più ha risentito del ciclo economico negativo. La quota degli impieghi in sofferenza, ovvero nei confronti di debitori non in grado di rispettare le scadenze per il pagamento degli interessi e per il rimborso del capitale, delle banche con sede nel Mezzogiorno è cresciuta tra il 1993 e il 1996 dal 13 al 27,8%, riducendosi al 24,1 nel 1998; per raffronto, nelle altre banche italiane, sebbene con una tendenza simile, i valori corrispondenti sono stati rispettivamente del 7,3, del 9 e dell’8,1 %. Di conseguenza, solo nel 1997 il sistema bancario meridionale nel suo complesso è tornato, dopo un triennio di perdite, in utile, sia pur minimo. Nel 1998, il rendimento sul capitale azionario (il cosiddetto “Roe”) è stato del 3% per le banche nel Mezzogiorno rispetto all’8,3 per quelle del Centro-nord. Le soluzioni di rimedio alla profonda crisi sono state il passaggio del controllo delle maggiori banche pubbliche ad altre banche allora pubbliche e a compagnie di assicurazione esterne all’area (Bnl e Ina nel caso del Banco di Napoli, Mediocredito centrale nel caso del Banco di Sicilia, che nel frattempo aveva assorbito la Sicilcassa) nonché l’acquisizione, proseguita ancora nel 1998, di molte piccole e medie banche locali da parte di istituti, di dimensione varia, del Centro-nord.

L’industria bancaria nell’Unione europea

I sistemi bancari europei presentano significative differenze nazionali. Considerando i primi 5 gruppi bancari dei maggiori paesi, sulla base dei valori di bilancio del 1997, ma tenendo conto delle operazioni di concentrazione annunciate nel 1998, la quota di mercato nell’area dell’Unione europea era pari al 13,7% per la Germania, al 10,6 per il Regno Unito, al 12,4 per la Francia e solo al 5,3 per l’Italia; le quote, rispetto al 1990, nei primi tre paesi sono aumentate rispettivamente di 7,5, di 4,8 e di 3,2 punti percentuali, rispetto ad appena 1,3 per l’Italia, che pur partiva dal livello più basso. Il numero di sportelli per abitanti nel Regno Unito è pari a poco meno dei tre quarti di quello di Italia, Francia, Olanda, per arrivare a circa un terzo rispetto alla Spagna. Persistono inoltre significative differenze nelle strutture di costi e ricavi.

A partire dai primi anni ’80 i sistemi bancari dei maggiori paesi europei, in particolare quelli dell’Europa continentale, sono stati soggetti a significative trasformazioni, che possono essere fatte risalire a quattro fattori principali, di cui i primi due, rivoluzione nella tecnologia dell’informazione e globalizzazione delle imprese, comuni anche ad altre economie avanzate, e gli altri due, deregolamentazione a livello internazionale e invecchiamento della popolazione e diffusione di investitori istituzionali, specifici dell’esperienza europea (e in parte di quella giapponese).

L’impatto della tecnologia dell’informazione si è tradotto in uno stimolo alla ricerca di economie di scala, ovvero di dimensioni d’impresa maggiori per ripartire su una scala produttiva più ampia i cospicui investimenti in attrezzature e in personale specializzato. Una spinta nello stesso senso la sta producendo l’introduzione dell’euro, in coincidenza con l’adattamento dei sistemi informatici alla datazione coerente con il nuovo millennio. Le banche più competitive stanno però cogliendo l’occasione per trasformare questo aggravio nei costi in un potenziale vantaggio nei confronti dei concorrenti, perché si tratta di un’opportunità per un riesame completo dell’infrastruttura informatica per trasformarla, da mero sostituto di procedure contabili su supporto cartaceo a strumento integrato con le nuove modalità operative dell’era di Internet.

Il peso crescente delle attività delle imprese fuori dai confini nazionali ha stimolato una domanda di servizi finanziari sofisticati e svolti in concorrenza con le maggiori banche americane, più attrezzate perché già abituate a operare con imprese multinazionali. Le conseguenze sono state una selezione tra le migliori banche europee già attive su quei mercati e l’incentivo a tentativi di entrata da parte di nuovi operatori.

L’industria bancaria europea è stata progressivamente liberata da una regolamentazione molto penetrante, specie nell’Europa continentale, che si era tradotta in controlli quantitativi sull’ammontare e sulla tipologia di prestiti da accordare, in accordi più o meno collusivi sui tassi d’interesse, in vincoli sui movimenti di capitale con l’estero, in barriere regolamentari sui tipi di attività bancaria da svolgere. Come si è già ricordato, i due provvedimenti chiave sono stati la direttiva che liberalizzava i movimenti di capitale con l’estero dal 1990 e la seconda direttiva bancaria entrata in vigore dal 1993.

Le differenze significative a livello nazionale tuttora esistenti e consentite dalla stessa direttiva bancaria, che lasciava aperta la possibilità a ciascun paese di invocare regimi particolari (in Francia, ad esempio, interessi sui depositi a vista non sono ancora ammessi né è lecita la banca telefonica), fanno sì che è ancora vero che la concorrenza si è esplicata soprattutto all’interno dei confini nazionali, senza incidere sulle significative differenze tra paesi nei prezzi di molti servizi bancari. La quota relativa ai clienti esteri sul totale dei prestiti nel 1996 era dell’1,6% in Spagna e raggiungeva un massimo del 3,6% in Italia tra i paesi dell’Europa continentale; nel caso dei depositi, l’intervallo era tra l’1,8% dell’Italia e il 6,8% della Germania; nel Regno Unito si raggiungevano invece valori prossimi al 10% in entrambi i casi. Alla fine del 1996, nell’intera Unione europea esistevano solo 445 sportelli, pari appena allo 0,3% del totale, in paesi diversi rispetto a quello di origine della banca.

Questi rilievi critici non sono tuttavia tali da nascondere gli indubbi progressi sulla via della formazione di un unico mercato bancario. Sistemi più protetti dalla concorrenza e meno soggetti al controllo di azionisti privati interessati al rendimento dei loro capitali, perché in buona parte sottoposti a controllo pubblico (come in Francia, Germania, Spagna e Italia), che potevano permettersi una scarsa attenzione all’efficienza, si sono visti via via costretti a dare maggiore enfasi a obiettivi di profitto, sia contenendo i costi sia cercando di riposizionarsi sui segmenti di mercati più redditizi. Come nel caso statunitense, un effetto della maggiore concorrenza è stato l’inizio di una fase di acquisizioni e fusioni, limitata prevalentemente all’interno del paese, ma anche con significative iniziative tra operatori di diversa nazionalità.

L’eliminazione di vincoli sull’ammontare e sull’allocazione dei prestiti e nella politica di aperture di sportelli in vari paesi ha creato peraltro anche le premesse per le crisi che hanno colpito alcune grandi banche, a partire dalla seconda metà degli anni ’80, in Francia, Spagna e Italia, e interi sistemi bancari in Norvegia, Svezia e Finlandia all’inizio degli anni ’90. L’operatività sui mercati internazionali, in particolare quelli su prodotti innovativi come i contratti derivati, altamente redditizi ma per questo anche rischiosi in assenza di competenze specifiche, è stata all’origine della crisi che in anni recenti ha fatto fallire alcune banche nel Regno Unito e provocato consistenti perdite a grandi banche svizzere.

L’invecchiamento della popolazione, più accentuato in Europa (e in Giappone), rende non sostenibili sistemi pensionistici pubblici basati sul trasferimento di risorse da parte della proporzione, calante, della popolazione che è in attività a quella, in crescita, dei pensionati. Sistemi alternativi, di natura privatistica, che legano i benefici pensionistici al rendimento dei fondi investiti, si fondano sull’operatività di investitori professionali – fondi pensione e società di assicurazione – sui mercati finanziari internazionali, piuttosto che sul ricorso a forme di risparmio tradizionale e a basso rendimento, come i depositi. Un secondo fattore di promozione del risparmio gestito è costituito dal fatto che la stessa modifica nella composizione demografica della popolazione europea – più anziani, con un patrimonio accumulato durante la loro vita lavorativa, e meno giovani, che peraltro diventano occupati e formano famiglia in età più avanzata rispetto ai loro genitori – accentua la domanda di gestione professionale dei risparmi a scapito della domanda di servizi bancari più tradizionali, come l’erogazione di mutui o la concessione di prestiti al consumo, prevalentemente rivolti alle famiglie giovani.

Una prima implicazione di questi fatti di agevole osservazione è che le banche cercano di entrare, come distributori, sui segmenti di mercato in crescita, in particolare in quello delle assicurazioni sulla vita (il fenomeno è noto con il termine francese di bancassurance). Una seconda implicazione è che l’operare di investitori istituzionali agisce da fattore di sviluppo dei mercati finanziari in Europa, in particolare di quelli azionari, anche in relazione alla crescita dell’offerta derivante dai programmi di privatizzazione di grandi imprese e di banche pubbliche. Questi fenomeni a loro volta accentuano lo stimolo per le imprese e per le stesse banche a perseguire obiettivi di massimizzazione del valore delle azioni, anziché, come in passato, obiettivi di mera crescita dimensionale. Un esempio al riguardo è la recente trasformazione delle building societies inglesi, specializzate nei finanziamenti ipotecari, da società cooperative in società per azioni, con operatività bancaria estesa; un altro esempio, nel caso italiano, è la propensione, sino ad epoca molto recente del tutto sconosciuta, a rendere pubblico l’obiettivo Roe a 2-3 anni di distanza, perché ritenuto l’informazione di sintesi cruciale per attirare gli investitori.

L’Ume è un ulteriore fattore destinato a mutare significativamente il panorama dell’industria bancaria europea, perché comporterà una maggiore competizione sui mercati creditizi sinora locali. Con la moneta unica, svanisce il rischio di cambio che poteva in passato far preferire di pagare tassi d’interesse più alti su prestiti espressi in valuta nazionale, erogati prevalentemente da banche nazionali. Ulteriori pressioni al contenimento dei margini di interesse sorgeranno perché l’euro consentirà la creazione di mercati finanziari europei di dimensioni comparabili con quello americano, dove anche le piccole imprese potranno raccogliere fondi direttamente piuttosto che doversi forzatamente rivolgere alle banche, come sinora avvenuto in assenza di mercati finanziari nazionali sufficientemente sviluppati.

La prospettiva più probabile è di una maggiore omologazione dell’esperienza europea a quella degli Stati Uniti, con una riduzione della quota dei finanziamenti bancari diretti e un accrescimento del ruolo della banca come consulente finanziario, in relazione anche al mutamento qualitativo nella domanda di servizi da parte delle imprese. La maggiore concorrenza indotta dalla piena confrontabilità dei prezzi dei beni espressi in un’unica moneta solleciterà processi di ristrutturazione delle imprese, con effetti sull’organizzazione, sulle dimensioni e sulla localizzazione delle medesime. Produttori attivi sull’intera area europea avranno necessità di servirsi di banche in grado di offrire servizi molteplici su uno scacchiere geografico privo di connotazioni nazionali e in concorrenza con altre grandi banche europee e americane.

Per rispondere alla sfida posta da questo insieme di fattori di cambiamento l’industria bancaria europea sta perseguendo in modo accelerato un processo di concentrazione, il cui grado è peraltro ancora relativamente basso rispetto ad altri settori di attività economica, seguendo diverse modalità:

a) fusione di aziende simili operanti nello stesso mercato nazionale, con l’obiettivo di conseguire risparmi nei costi riducendo duplicazioni di attività e di sedi, con conseguenti riduzioni di personale. Le premesse per questo tipo di fenomeno sono poste dall’eccesso di sportelli rispetto alla potenziale clientela nei paesi dell’Europa continentale, nonostante tutti i paesi, a eccezione della Spagna e, segnatamente, dell’Italia, abbiano già provveduto a ridurli rispetto ai loro valori massimi negli anni ’80;

b) aggregazioni e accordi tra istituzioni finanziarie operanti in diversi settori, in modo che le reti di vendita esistenti possano offrire una gamma più ampia di prodotti. Un primo esempio è costituito dall’acquisto da parte di grandi banche tedesche, olandesi e svizzere di banche d’investimento inglesi, per rafforzare la propria operatività nella finanza d’impresa. Un secondo esempio è dato dalla bancassurance: le polizze vendute da sportelli bancari o da società controllate dalle banche raggiungono oltre il 40% in Portogallo e in Francia e prossima a quella soglia è la Spagna; superano il 20% in Belgio e Austria. È opportuno tuttavia notare che il processo non è a senso unico, nella direzione del cosiddetto supermercato finanziario, anche per i problemi non indifferenti, e spesso anzi causa di successive separazioni, posti dall’integrazione di strutture e culture aziendali differenti. Alcuni esempi eccellenti stanno a dimostrare la preferibilità della strada della specializzazione, per concentrarsi su settori più redditizi: è questo il caso della Lloyds Tsb, con tassi di rendimento talmente elevati (Roe del 33% nel 1998, rispetto a valori del 24 per Banca Fideuram e del 21 per il Rolo nel caso italiano) da averne fatta la banca con maggiore capitalizzazione in Europa. La strategia adottata è stata quella di concentrarsi sui servizi ai consumatori, sviluppando al proprio interno anche i servizi assicurativi e riducendo invece, con una scelta controcorrente, la sua presenza nel segmento dei servizi alle imprese, perché ritenuto un freno agli utili;

c) fusioni tra operatori di paesi diversi, possibilmente limitrofi. Questa modalità è ancora non molto diffusa e ha per protagonisti sinora banche di piccoli paesi che non trovano più nei loro mercati domestici spazi per ulteriore espansione: è il caso delle banche olandesi, svedesi e finlandesi.

Il rimescolamento delle carte è ancora ben lungi dal potersi dire in via di esaurimento, se si accetta la valutazione, avanzata da molti osservatori, che in effetti non più di dieci/dodici banche europee potranno operare a tutto campo nell’ambito dell’Ume, e che le altre banche dovranno trovare una loro collocazione di nicchia scegliendo opportunamente il segmento di mercato in cui specializzarsi.

L’industria bancaria negli Stati Uniti

L’industria bancaria negli Stati Uniti, ovvero nel paese con i mercati finanziari più evoluti e dove la rivoluzione della tecnologia dell’informazione sull’economia e sulla società è già in atto, opera secondo modalità molto diverse da quelle dei paesi europei. Le ragioni sono da ricondurre sia al fatto che le banche, che in quel paese sono solo a proprietà privata, possono essere autorizzate ad operare o dai singoli Stati o dal governo federale, con conseguenti diversi regimi di regolamentazione, sia ancor più a un insieme di normative, risalenti agli anni ’20 e ’30 e che solo parzialmente e in periodi recenti sono state rese di fatto non vincolanti. Le conseguenze di questo assetto istituzionale molto articolato sono state a) la presenza di un elevato numero di (piccole) banche, nella maggior parte dei casi con un solo sportello, esposte maggiormente ai rischi di insolvenza per i vincoli posti alla diversificazione di portafoglio, geografica e per prodotti, e b) lo sviluppo di mercati e di operatori – le cosiddette “banche d’investimento” specializzati nel fornire servizi finanziari (intermediazione in titoli emessi da operatori privati, finanza d’impresa, gestione di portafogli). Come contrappasso alla maggiore esposizione a rischi di insolvenza e all’assenza della proprietà pubblica, fin dagli anni ’30 gli Stati Uniti hanno sperimentato l’istituto dell’assicurazione dei depositi, snodo centrale della rete di protezione pubblica stesa intorno all’industria bancaria a difesa dei risparmiatori. L’esperienza americana costituisce un punto di riferimento cruciale per gli altri paesi, tra cui quelli europei, che sono giunti a decenni di distanza a confrontarsi col problema di come prevenire e gestire crisi bancarie, facendo ricorso il più possibile a strumenti di mercato, anziché semplicemente addossarne i costi ai contribuenti, con nazionalizzazioni o con finanziamenti pubblici.

A tutt’oggi, gli interessi, ormai consolidati, dell’industria assicurativa e delle grandi banche d’investimento hanno evitato che venissero rimossi i vincoli a un’operatività delle banche commerciali simile a quella delle banche universali europee. Per ovviare, entro ambiti però abbastanza limitati, ai vincoli di legge alla diversificazione geografica e per prodotto la banca centrale, nell’ambito dei suoi poteri discrezionali, ha favorito l’operatività, sotto il suo diretto controllo, di società finanziarie di partecipazione (holdings) bancarie pure (senza interessi cioè al di fuori del settore), controllanti sia banche commerciali sia banche d’investimento o altri operatori specializzati nell’intermediazione dei titoli: le singole unità operative possono operare sull’intero territorio nazionale, mantenendo reciprocamente una netta autonomia di gestione.

Solo nel corso degli anni ’80 sono stati rimossi i limiti sui tassi d’interesse sui depositi. In quel decennio la legislazione è stata tuttavia rivolta soprattutto a cercare di fronteggiare la grave crisi – tra il 1980 e il 1992 sono falliti quasi 5 mila istituti – che ha colpito in particolare le casse di risparmio, specializzate nell’erogazione di mutui ipotecari, con pesanti oneri per i contribuenti dato lo stato di insolvenza dell’agenzia di assicurazione per i depositi per questa categoria di aziende. L’approvazione nel 1991 del provvedimento principale, il Fdicia, che ha di fatto posto le banche commerciali e le casse di risparmio nella condizione di essere oggetto di controlli più penetranti e tempestivi da parte dell’unica agenzia pubblica di assicurazione dei depositi (Fdic), ha coinciso con l’inizio del cielo economico positivo in cui ancora si trova l’economia americana, con ovvi effetti positivi sulla redditività: è quindi forse presto per attribuire alla nuova normativa il merito esclusivo della riacquistata condizione complessiva di solidità patrimoniale del sistema bancario (nel 1995 i fallimenti sono stati appena 34, di cui 26 di piccole banche cooperative). Le restrizioni sull’articolazione geografica degli sportelli sull’intero territorio nazionale sono state formalmente rimosse solo dal luglio 1997.

La ricerca di segmenti di mercati innovativi su cui recuperare margini di redditività, erosi dalla concorrenza sulle loro linee di prodotti tradizionali – prestiti e depositi – da parte di operatori non bancari in particolare nel corso degli anni ’80, e le opportunità offerte da mercati finanziari evoluti hanno contribuito a far sviluppare nelle banche americane un’elevata capacità di promuovere innovazioni finanziarie, come esemplificato dalla cartolarizzazione dei prestiti, e di introdurre all’estero prodotti già sperimentati negli Stati Uniti. Le competenze maturate in un settantennio nel mercato finanziario più evoluto hanno inoltre reso leader incontrastate a livello mondiale le banche d’investimento: nel 1996, cinque delle dieci maggiori società attive in Europa in acquisizioni e fusioni tra imprese di diversa nazionalità erano americane.

Un confronto internazionale

Il settore bancario dà lavoro nei maggiori paesi industrializzati a circa il 3-4% degli occupati; in Italia, nel 1998 ha impiegato il 2,2% dei lavoratori dipendenti e ha contribuito al Pil per circa il 6%. Il ruolo effettivo del comparto nell’intera economia è tuttavia molto più rilevante, perché attraverso esso funziona il sistema di pagamenti, ottengono finanziamenti le famiglie e le imprese, soprattutto quelle medio-piccole, ed è gestita direttamente o indirettamente una quota rilevante dei risparmi delle famiglie.

Il sistema dei pagamenti, al dettaglio e all’ingrosso, costituisce l’infrastruttura essenziale per il funzionamento delle economie di mercato fondate su scambi di beni, reali o finanziari, contro moneta, essenzialmente costituita da depositi bancari. Nelle transazioni di valore unitario contenuto, come quelle della spesa quotidiana, sebbene il contante sia ancora lo strumento più usato, la tendenza comune a tutti i paesi avanzati è verso una progressiva sostituzione con mezzi di pagamento diversi, che in ultima analisi si basano sulla movimentazione dei depositi. In questo senso, la quota dei cittadini di un paese che è titolare di un conto corrente è un indicatore importante del livello e della qualità di vita, anche perché l’uso del contante può stare a significare la preferenza per l’anonimato, come nel caso di transazioni nell’economia sommersa o criminale.

Nei più recenti confronti internazionali sui sistemi di pagamento l’Italia appare più arretrata di quanto ci si potrebbe aspettare sulla base di un confronto basato sul reddito. Il numero di conti correnti bancari per ogni cento abitanti (50), anche se in crescita costante, è ancora pari a poco più di un terzo rispetto alla media europea. Non è quindi sorprendente che anche il numero delle operazioni effettuate in media da ciascun italiano nel 1997, con strumenti diversi dal contante, sia stato pari a 41, cioè poco più di tre al mese in media; negli altri maggiori paesi europei è stato, invece, tra 3 e 4 volte tanto e negli Stati Uniti oltre otto volte. Queste operazioni per di più prevedono l’utilizzo di strumenti del tutto tradizionali, come gli assegni e i bonifici cartacei; i pagamenti effettuati con carta di credito ne costituivano appena l’11,3% in Italia, contro il 31 del Regno Unito (ma solo il 4,2 della Germania). Anche se la diffusione di sportelli automatici (tipo Bancomat) in Italia è in linea con la media dell’Ume, l’utilizzo rimane ancora contenuto: il numero delle operazioni per sportello, sempre per un valore unitario più elevato, è superiore della metà in Germania, fino a risultare quasi quintuplo in Francia.

Tra gli strumenti finanziari diversi dalle azioni, quelli emessi dalle banche e in cui famiglie e imprese investono (depositi e obbligazioni) e attraverso cui si indebitano (prestiti) rappresentano nei paesi dell’Europa continentale una quota quasi totalitaria, a testimonianza del ruolo centrale dell’industria bancaria nel sistema finanziario di quei paesi. Scostamenti significativi si hanno, solo sul lato dei debiti, per Stati Uniti e Regno Unito: in particolare, nel primo paese, la quota, sui debiti complessivi delle famiglie e delle imprese, di quelli verso le banche ammonta a circa un terzo; nel secondo paese, la quota verso le banche dei debiti delle imprese non raggiunge la metà.

È da notare tuttavia che i dati appena esposti non tengono conto delle funzioni svolte dalle banche a favore in particolare delle imprese con le operazioni “fuori bilancio”, così chiamate perché non si traducono in un effettivo utilizzo di fondi ma solo nella garanzia, fornita dall’istituto di credito dietro pagamento di una commissione, che nel caso si verificassero in futuro determinati eventi, metterebbe a disposizione del cliente fino a un certo ammontare di risorse. Un esempio di queste operazioni, molto diffuso negli Stati Uniti, è l’apertura di una linea di credito, in occasione dell’emissione di carta commerciale da parte dell’impresa, cui quest’ultima potrà far ricorso, ottenendo un prestito, se al momento del rimborso dei titoli non è in grado di ottenere direttamente i fondi necessari con nuove emissioni, perché i mercati finanziari attraversano una fase di crisi; un altro esempio, di dimensioni crescenti, è costituito dalla partecipazione delle banche a operazioni sui contratti derivati.

Anche la quota delle attività delle famiglie nei confronti delle banche sottostima in modo rilevante il ruolo di queste ultime nella gestione della ricchezza finanziaria, perché non include quelle forme di investimento (quote di fondi comuni, polizze di assicurazione, fondi pensione) che fanno capo a operatori finanziari controllati dalle stesse banche né i titoli tenuti in custodia. Nella maggior parte dei paesi dell’Ume, ad esempio, oltre l’80% delle società di gestione dei fondi comuni è controllato dalle banche stesse.

Si consideri in maggior dettaglio il caso italiano, che però è un po’ estremo per l’articolazione ancora scarsa del sistema finanziario e per il contenuto ricorso delle famiglie all’indebitamento. Sul totale delle attività finanziarie delle famiglie alla fine del 1998, gli strumenti direttamente emessi dalle banche incidevano per poco più di un quarto (i depositi, comprensivi delle operazioni pronti contro termine – acquisto di titoli da parte del risparmiatore con patto di successiva vendita alla stessa banca a un prezzo più alto –, per il 18,6% e le obbligazioni bancarie per il 6,9). Accanto a questa raccolta diretta di risorse, ve n’è una, sempre più importante anche per le commissioni che genera, di natura indiretta, che vede le banche agire come gestori della ricchezza finanziaria dei risparmiatori. Oltre un quarto delle attività delle famiglie è gestito da fondi comuni (15,9%), gestioni patrimoniali (4,1), assicurazioni (5,2) e fondi pensione (2,5). Di fatto, però, circa due terzi del risparmio gestito ha come perno il sistema bancario: la quota di mercato delle società di gestione di fondi comuni di matrice bancaria era pari a fine 1998 al 93%; la gran parte del patrimonio delle gestioni individuali faceva capo alle banche direttamente (69%) o indirettamente, tramite le 81 Sim controllate (su un totale di 186 in attività); la distribuzione del 40% delle polizze assicurative sulla vita e la gran parte della raccolta dei fondi comuni non bancari sono avvenute per il tramite della rete degli sportelli e dei promotori delle banche. E non è tutto: occorre infatti tener conto anche dei titoli depositati in custodia dai clienti, che ne sono proprietari direttamente, e che a fine 1998 superavano di un quarto i depositi delle famiglie. I debiti nei confronti delle banche erano invece pari a meno dei due quinti dei depositi.

L’industria bancaria ha nel corso dell’ultimo ventennio modificato molte delle sue caratteristiche tradizionali ed è stata colpita da ripetute crisi, perché sottoposta a una dose massiccia di concorrenza a seguito della liberalizzazione dei mercati finanziari nazionali e internazionali, dell’accelerazione dell’innovazione finanziaria e dell’impatto via via più penetrante della tecnologia dell’informazione. Il processo, iniziato già negli anni ’80 negli Stati Uniti e solo con un decennio di ritardo in Europa, e tuttora in corso, con motivazioni e caratteristiche solo in parte similari, si è tradotto in una contrazione del numero (dall’inizio degli anni ’90 le banche operanti nell’Unione sono diminuite di circa un terzo) e in un aumento delle dimensioni medie delle banche e del grado di concentrazione, ovvero della quota di mercato controllato dalle maggiori aziende; l’occupazione si è ridotta quasi dovunque e ancor più si è contratta la quota del costo del lavoro sul margine d’intermediazione. Anche il numero degli sportelli è stato ridotto in vari paesi, anche se in questo caso i confronti internazionali poggiano su basi più fragili, non solo perché le limitazioni alla libertà di stabilire gli sportelli sono state rimosse solo recentemente (in Italia e negli Stati Uniti), ma anche perché negli sportelli sono compresi, senza distinguerne la diversa natura, quelli tradizionali e quelli cosiddetti leggeri, con personale ridotto all’osso, che offre solo i servizi più semplici (si pensi, a titolo di esempio, a quelli aperti solo per alcuni periodi all’anno in località di villeggiatura o a quelli sorti in molti supermercati negli Stati Uniti). Pur con queste avvertenze, balza all’occhio l’eccezione del caso italiano, in cui gli sportelli sono aumentati di oltre il 40% tra il 1990 e il 1996 (continuando in questa tendenza anche successivamente, fino a divenire più di 26 mila a fine 1998).

Un aspetto meritevole di attenzione è che il consolidamento è stato più intenso e rapido in paesi, come gli Stati Uniti e i paesi scandinavi, in cui si sono verificate serie crisi bancarie; il processo è stato molto più lento nei maggiori paesi dell’Europa continentale, dove non a caso una parte rilevante delle banche è sotto il controllo pubblico (a parte il caso dell’Italia, nel 1996, le quote di mercato erano del 16% in Francia e del 46 in Germania, contro valori nulli per Stati Uniti e Regno Unito).

Acquisizioni e fusioni nel settore finanziario, con un conseguente aumento del grado di concentrazione, hanno contraddistinto dall’inizio degli anni ’80 gli Stati Uniti, con un’accelerazione nel periodo più recente; il fenomeno si è anche manifestato in Europa in preparazione dell’Ume ed è tuttora in corso. Negli Stati Uniti, nel periodo compreso tra l’inizio degli anni ’80 e la metà degli anni ’90, si sono verificate in media ogni anno 434 operazioni di fusioni tra banche sane, escludendo cioè i casi di acquisizione di banche in crisi. Nell’Europa continentale, acquisizioni e fusioni tra banche e tra banche e altre imprese finanziarie, in particolare di assicurazione, prevalentemente all’interno di ciascun paese, hanno subito un’accelerazione in anni recenti: nella prima metà degli anni ’90 esse rappresentavano circa il 10% di quelle avvenute in tutti i settori, ma nel 1997 e inizio 1998 la quota è più che raddoppiata. Il mercato bancario italiano non ha fatto eccezione alla tendenza: tra i primi anni ‘90 e il periodo 1994-98 il numero medio annuo delle fusioni e incorporazioni è cresciuto da 27 a 37; dal 1995 hanno assunto particolare rilievo le operazioni di acquisizioni della maggioranza del capitale (mediamente oltre 21, rispetto a poco meno di 6 nel periodo 1990-94). Nel 1998 sono state effettuate 54 operazioni di concentrazione, con il maggiore trasferimento di quote di mercato (oltre il 12%) nell’intero decennio.

Le politiche di privatizzazione intraprese dai principali Stati dell’Europa continentale, il dispiegarsi degli effetti del mercato unico europeo e del procedere dell’Ume, con il riposizionamento di industrie bancarie fondamentalmente nazionali su un mercato continentale e la pressione competitiva esercitata da operatori statunitensi che possono operare sull’intera area, la rimozione delle barriere poste alle banche commerciali negli Stati Uniti (e in Giappone) nell’attività di gestione di portafoglio inevitabilmente provocheranno un’accelerazione del consolidamento, anche dove finora è stato meno intenso. Nella stessa direzione agiscono gli sviluppi della tecnologia informatica, con l’elevarsi delle soglie dimensionali minime richieste per sopportare i costi fissi richiesti per disporre di infrastrutture fisiche e di personale qualificato adeguati.

Giuseppe Marotta, La banca, Il Mulino, Bologna 1999.

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